La recensione di True Detective 2: dieci detective per Nic posson bastare?

La prima conclusione cui giungiamo dopo il primo episodio di True Detective, nuova stagione, è che non potevano rifare quello che avevano l’anno scorso. Nic Pizzolatto – l’ideatore della serie – doveva fare qualcos’altro. Ci è riuscito? Decisamente si. E’ andata bene? Vedremo.
Tenendo presente che non è bene lasciarsi andare sin da subito ad accuse di tradimento (dell’idea) e corruzione (del successo) – ogni opera seconda ne è suscettibile –, cercherò di fare un’analisi – per quanto mi è possibile – dimentica del mio amore per la prima stagione: l’accento impossibile del caro Matthew e il panciotto e lo sguardo ebete del caro Woody.

L'accento impossibile
Lo sguardo impossibile

Iniziamo dalla sigla. La canzone è bella e mi sembra vada in linea con il nuovo contesto da banlieue californiana. Le solite sagome attraversate dai paesaggi in cui è ambientata la serie risultano, invece, al meglio retoriche, al peggio insulse. Tanto più se, stavolta, le sagome della sigla corrispondono a un’effettiva piattezza dei personaggi, della loro emotività e delle loro intenzioni, come mi sembra sia successo qui. Se nella prima stagione i vasti orizzonti della Lousiana scrutati dai personaggi mentre si sorseggiava una birra prima di minacciare un ex sceriffo di affogarlo nelle paludi erano un pretesto per ripiegare questa penetrazione dello sguardo verso l’interno (con il rischio di non poterne riemergere), qui lo sguardo, lo scrutamento è rivolto solo verso l’esterno, sistematicamente e con sospetto.

E’ questo il messaggio che vuoi darci, Nic? Che nella metropoli non c’è spazio né tempo per riflettere, per guardare gli altri con comprensione, per prendersi una birra all’aria aperta? Be’, ci sei riuscito. Me ne potrebbe fregare qualcosa, di questo tuo messaggio? Proprio no. E’ la tensione che manca qui, il brivido, l’interesse per la sorte dei personaggi. Facciamo un esempio. Verso la fine dell’episodio il poliziotto che si è fatto fare un pompino da Starletta Strafatta e subito dopo averne ricevuto un altro dalla Ragazza Ispanica Innamorata vuole suicidarsi. E’ inverosimile il richiamo della morte dopo ben due pompini, ma non è questo il punto. Dopo che è stato mostrato questo giovane ragazzo bello e rispettato in preda ai turbamenti interiori con le sue cicatrici e tutto il resto, senza tra l’altro che ci fosse un minimo spiegata la natura degli stessi, vi interessava sapere se la sua corsa a fari spenti nella notte lo avrebbe portato alla morte? Se nel mondo muore un affascinante giovane di belle speranze di cui non sappiamo nulla siamo sempre pronti a piangerne la dipartita. Nel caso di un personaggio fittizio, forse, si dovrebbe fare qualche sforzo in più per ottenere tale effetto. Magari aspettare il secondo episodio.
Stessa fretta, stessa ansia di caratterizzazione è riscontrabile negli altri personaggi. La personalità da donna forte e incompresa della detective Rachel McAdams può troppo facilmente essere ricondotta allo stereotipo della femminista frustrata, che non riesce a farsi una sana scopata perché odia i maschi. La mancanza di scopate la porta a fare cazzate sul lavoro, senza tra l’altro subirne le conseguenze, non fosse per la sorella che le dice quanto avrebbe bisogno di non rompere le altrui palle con il suo snervante perbenismo. L’unica cosa che dà spessore a questo perbenismo così malamente costruito e di cui l’unica giustificazione è il padre fattone, è merito del casting: l’attrice ha una faccia che riesce immediatamente di cazzo.

Di cazzo proprio
Di cazzo proprio

Vince Vaughn è sempre fico, ma sarebbe stato bello vedergli in faccia un’espressione che non fosse di stentato disappunto.
L’unico personaggio che mi è piaciuto è stato quello di Colin Farrell: ingiustificatamente violento, padre frustrato, s’incazza e picchia un tizio con il tirapugni per un paio di Nike dell’odioso figlio ciccione (ma che cazzo se ne faceva delle scarpe da ginnastica?!). Ma anche lì: non esistono conseguenze: il tizio picchiato non sporge denuncia? quello della California è uno stato di polizia in cui gli agenti possono presentarsi a casa delle persone e pestarle senza motivo? Non erano nemmeno negri!

Quei baffi hanno conosciuto il dolore
Quei baffi hanno conosciuto il dolore

E così, a passi d’inverosimiglianza, arriviamo alla fine dell’episodio, in cui i protagonisti, finalmente riuniti, si lanciano occhiate di complicità davanti al primo cadavere. Pure a questo hanno cercato di dare una personalità, con la sua casa piena di suppellettili falliche e dipinti lesbo: ma il rischio è che i morti finiscano per avere più personalità dei vivi.
Insomma, il ragionamento di Pizzolatto e soci sembra essere stato questo: True Detective è bella per i personaggi? Allora mettiamo più personaggi, mettiamoci i russi o i polacchi o chessoio, mettiamoci il fidanzato che vuol fare i giochetti erotici, mettiamoci il partner con il pancione da ubriaco e il partner ispanico, la sorella daicapelliblù, l’assistente biondo-gay, il compagno stronzo dell’ex moglie, la cameriera con le cicatrici. E’ una città, giusto? Non fa niente se si perde per strada proprio quello che è piaciuto di True Detective: sceneggiatura di ferro, regia perfetta, attori con le palle. In qualche modo hanno voluto dare l’impressione di mantenere questi elementi: hanno preso degli attori conosciuti, magari anche bravi…e basta. La regia sembra copiare quella della precedente stagione, risultando inevitabilmente inadatta al nuovo ambiente. La sceneggiatura, come dicevo, non si preoccupa né della verosimiglianza della storia, figuriamoci di quella dei personaggi. Costruendo, così, dei generici detective, e affanculo il true cui ci eravamo docilmente abituati.